giovedì 17 settembre 2009

01. Il Presente

Oggi viviamo in un mondo globalizzato, ma pieno di contraddizioni, nel senso spiegato da Augé e Colleyn: “Il mondo si uniforma, ma – tra gli estremi della ricchezza e della povertà – crescono le disuguaglianze. La scienza compie progressi rivoluzionari sia nella conoscenza dell’universo sia in quella della vita, ma le religiosità di ogni sorta non sono mai state così pregnanti” (2006: 110). Spetta a noi di indagare su queste contraddizioni e sulle loro cause in modo da poterle superare.
Oggi è l’era dell’accoppiata Capitalismo/Democrazia rappresentativa, che appare davvero irresistibile e capace di attirare a sé non solo l’Occidente, ma anche il resto del mondo, Cina e India in testa. Quasi tutti, studiosi e gente comune, sono convinti che siamo di fronte «migliore sistema possibile». È vero, c’è qualche voce fuori dal coro, ad esempio quella di Enrico Grazzini: “Il capitalismo mostra profondi segni di crisi, e anche la sua filosofia politica, basata sulla democrazia rappresentativa, è in crisi” (2008: 236). Ma si tratta di casi isolati, di eccezioni che confermano la regola.
Oggi si parla di crisi dello Stato, che è insieme crisi di territorialità, per via della mobilità delle popolazioni, crisi di sovranità, a causa della sempre più profonda ed estesa interdipendenza fra Stati, crisi dei diritti delle persone, a causa della preponderanza della ragion di Stato, crisi della giustizia, a causa dell’esclusione di intere classi sociali dalla politica. La crisi dello Stato ha fatto sì che l’attenzione della politica si spostasse proprio sui diritti umani, che della democrazia costituiscono parte integrante. Senza diritti della persona, infatti, la democrazia “sarebbe una contraddizione in termini, poiché la mancanza di libertà di parola, di associazione, di assemblea, di movimento o di garanzia di sicurezza per la persona, di un procedimento giudiziario regolare, farebbe delle elezioni una vuota facciata, e renderebbe impossibile ogni controllo popolare sul governo” (Beetham 1998: 26).
La crisi dello Stato implica la fine di un mondo diviso in blocchi e l’inizio di un mondo globalizzato, centrato sulla persona e sull’esercizio effettivo dei suoi diritti fondamentali. In sostanza, occorre trovare il modo di armonizzare l’esigenza dell’universale (ossia il mondo) con quella del particolare (ossia la persona individuale). E questo non può avvenire se non realizzando una qualche forma di «democrazia globale», ove sia possibile coinvolgere attivamente tutte le singole persone. Si tratta, in fondo, di portare a termine il processo iniziato nel 1919 con l’istituzione della Società delle Nazioni (1919), con la quale “si è affermato progressivamente il principio che il rapporto tra lo stato e i suoi cittadini non riguardasse solamente lo stato, ma dovesse investire anche la comunità internazionale” (Archibugi, Beetham 1998: 27).

01.1. Le responsabilità dell’uomo
Nel corso dei suoi 4,5 miliardi di esistenza la terra è cambiata, certo, ma i suoi cambiamenti sono rimasti entro i limiti della materia e hanno obbedito alla leggi della fisica e della chimica. Sono stati cambiamenti di ordine quantitativo, che ineriscono la temperatura, la pressione, l’altezza delle acque, l’estensione dei ghiacciai, la forma dei continenti, il tipo di flora e di fauna, ma sempre nei limiti delle leggi fisiche e chimiche che governano la materia. Ebbene, questi cambiamenti della terra, che per miliardi di anni sono stati lenti e in buona misura prevedibili, hanno subito una brusca accelerazione a partire da 5 mila anni fa, ma soprattutto negli ultimi due secoli, ad opera del Sapiens. In quanto figlio della Madre Terra, nel corso dei millenni precedenti, il Sapiens ha esibito un atteggiamento di timore reverenziale nei confronti della natura. Ma, da 5 mila anni in qua, non è più così. I progressi culturali compiuti dal Sapiens dopo l’invenzione della scrittura non hanno alcunché di comparabile, né con la storia della terra, né con quella di altri esseri viventi, soprattutto dopo l’invenzione della scrittura.
Oggi la terra è in pericolo. “L’Uomo è la prima specie vivente della biosfera che ha acquisito la potenza di distruggerla” (TOYNBEE 1981: 27), anche se “non sarà mai in condizione di sopravvivere al matricidio, se mai dovesse commetterlo. L’autodistruzione sarebbe la sua punizione” (TOYNBEE 1981: 595). Oggi, l’uomo è in grado di decidere il proprio futuro: potrebbe annientarsi, ma potrebbe anche scegliere di vivere bene e in pace. Nel primo caso non dovrà far altro che continuare a comportarsi come ha fatto in questi ultimi 5 mila anni: elevare barriere culturali e religiose e costruire armi sempre più terrificanti. Nel secondo caso dovrà cambiare mentalità. In particolare, dovrà abbandonare i sistemi di governo autoritari e i nazionalismi, e votarsi ad una politica di giustizia, com’è quella concepita dalla DD. Il fatto che egli non sia stato finora capace di raggiungere questo traguardo non vuol dire che esso sia utopico e irraggiungibile. In realtà, il cammino politico dell’uomo è ancora in corso e la meta è ancora da definire.

01.2. Le forze politiche sul campo
Come spiega Emanuele Severino, “Oggi, nei Paesi ricchi del Nord del Pianeta sono rimasti in campo i «valori» del capitalismo, della democrazia e del cristianesimo” (1993: 51), che sono tra loro inconciliabili. “Il fine del capitalismo è il profitto. E il capitalismo è capitalismo solo in quanto persegue il profitto e il suo indefinito incremento” (1993: 60). Fine della democrazia, invece, “sono quei valori di uguaglianza e di libertà, che non solo differiscono dal profitto, ma ne richiedono la subordinazione” (1993: 62). “A sua volta, la Chiesa cattolica ha ribadito, anche recentemente, che lo scopo della produzione economica non può essere il profitto ma il «bene comune»” (1993: 63).
“Il rapporto tra capitalismo, democrazia, cristianesimo è profondamente conflittuale e con la fine del comunismo questa conflittualità sta venendo sempre più in primo piano” (SEVERINO 1993: 59). Ma bisogna fare i conti con la tecnica. “Senza la tecnica ognuna di quelle forze sarebbe del tutto impotente” (SEVERINO 1993: 59). Oggi si va profilando “una situazione in cui il capitalismo è costretto ad assumere come scopo primario non più il profitto, ma la continua innovazione tecnologica che ha il compito di garantirlo. Insensibilmente, si sta andando verso un’epoca in cui il capitalismo, non avendo più come scopo primario il profitto, è capitalismo solo in apparenza, mentre in realtà è tecnocrazia” (SEVERINO 1993: 67).
Ma anche capitalismo e tecnica sono tra loro in conflitto. Infatti, scopo della tecnica è quello di eliminare la scarsità dei beni e creare sovrabbondanza. “Il capitalismo, invece, è un modo di produrre ricchezza in una situazione di scarsità” (SEVERINO 1993: 87). La ricerca del profitto ha senso solo se essa consente di avere accesso a beni preclusi alla maggioranza. “Uno sviluppo tecnologico che consentisse a tutti di vivere come oggi vivono i ricchi, vanificherebbe l’impulso principale dell’intrapresa capitalistica, cioè la volontà di avere più ricchezza e più potere degli altri” (SEVERINO 1993: 88). “Per sopravvivere, il capitalismo deve dunque frenare, ad un certo momento, lo sviluppo tecnologico: deve controllarlo in modo da impedire che esso metta tutti su un piano di parità economica” (SEVERINO 1993: 87).

01.3. Il congedo di Montanelli
Oggi disponiamo dei mezzi necessari per l’attuazione di una democrazia partecipativa, ove siano garantiti l’effettivo esercizio dei diritti fondamentali dell’individuo e la piena valorizzazione del capitale umano. Ma esitiamo, non facciamo i passi necessari per giungere a questo traguardo. Così, anche nei paesi più progrediti, dobbiamo constatare la scarsa democraticità e l’insufficiente rispetto dei diritti umani.
Prendiamo il caso dell’Italia. Certo è difficile parlare di una sana democrazia in un paese dove un cittadino illustre come Indro Montanelli giunge a dichiarare pubblicamente che rinuncia alla propria italianità. “... il congedo – scrive Montanelli nel Poscritto de L’Italia dell’Ulivo – l’ho preso negli ultimi tempi dalla stessa Italia, un Paese che non mi appartiene più e a cui sento di non più appartenere” (MONTANELLI, CERVI 1997:341 ). E seguono le critiche amare alla patria perduta, ad un’Italia in cui la democrazia è degenerata in partitocrazia e in cui “la corruzione non ci deriva da questo o quel regime o da queste o quelle «regole», di cui battiamo, inutilmente, ogni primato di produzione. Ci deriva da qualche virus annidato nel nostro sangue e di cui non abbiamo mai trovato il vaccino” (ivi p. 347). Montanelli si congeda da un’Italia perversa e senza voglia di risalire la china. In questo paese perfino le forze più vive, gli intellettuali, che dovrebbero essere le guide dell’intera nazione, perfino costoro si attardano in posizioni di comodo. “Se è vero che l’ambizione di ogni intellettuale – scrive Montanelli – è di diventare il direttore della pubblica coscienza, l’intellettuale italiano la serve all’incontrario: mettendosene al rimorchio e facendo la mosca cocchiera di tutti i suoi eccessi e sbandate” (ivi p. 348). Ecco le ragioni che hanno indotto un grande uomo di cultura, giunto ormai alle soglie della vita, a prendere le distanze da un paese senza speranza e a salutarlo anzitempo con un addio.
Grazie anche a gesti come questo, possiamo sperare che, prima o poi, qualche valido esponente delle classi dominanti voglia indicare alle masse popolari la via della democrazia e c’è da credere che, se Montanelli avesse saputo tramutare i suoi sentimenti di delusione e rabbia nella volontà di cogliere i passi da compiere per approdare ad una società più appagante e di farne partecipe il popolo, sarebbe stato meglio per lui e per il popolo stesso. Ebbene, oggi viviamo nell’attesa che qualche grande uomo, mosso dalla delusione di vivere in una società iniqua, voglia creare un movimento di pensiero indirizzato alla realizzazione di una società veramente democratica e partecipativa.

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